OttantaDino

Roberto Beccantini28 febbraio 2022

Ottant’anni, oggi. Dino Zoff, come «vola» il tempo. Portiere per vocazione operaia, friulano e pasoliniano, la solitudine essenza ed esigenza. Tra i pali come in fabbrica. Per produrre, doveva impedire che producessero gli avversari. Di scuola britannica, studioso di Banks, poco teatro e ancor meno cinema, zero alibi, la colonna sonora del silenzio e il senso della misura: «Dura solo un attimo, la gloria». Proprio così. Avrebbe potuto scriverci un libro: e difatti l’ha scritto.

Udinese, Mantova, Napoli, Juventus. E la Nazionale. Poi allenatore: Olimpica, Juventus, Lazio, Italia, ancora Lazio, Fiorentina. E persino presidente (della Lazio di Cragnotti). E’ stato l’unico italiano a conquistare Europa e Mondo. Finì su «Newsweek» e in un francobollo di Guttuso. Ha debellato un virus strano che l’aveva quasi incatenato. Compie gli anni durante una guerra, non importa se (per ora) lontana, lui che dentro a un’altra era nato, il 28 febbraio 1942.

Per me, uno dei più grandi. Ha giocato nell’epoca in cui, per i portieri, i piedi erano necessari ma non ancora obbligatori. Ha vinto quasi tutto, e da tecnico, con Madama, una Coppa Uefa e una Coppa Italia strappata – udite, udite – al Milan di Sacchi. Oggi, i portieri sono tralicci di muscoli e tritolo. Conobbe la moglie, Anna, a Mantova, ha un figlio, due nipotini, vive a Roma. Il tiro da lontano di Haan, in Argentina, e la paratona su Oscar, al Sarrià, sono i confini di una carriera scampata, addirittura, alle pallottole del web. Non è stato tutto, è stato molto. Gli basta. L’11 luglio saranno 40 anni dal Mundial spagnolo, dal bacio a Bearzot, che tanto gli manca, dall’urlo di cui Tardelli è rimasto prigioniero.

Conta-Dino, lo chiamava il poetico Camin. Era un altro secolo. Felice di esserci stato. Auguri, Dino.

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Vinta due volte

Roberto Beccantini27 febbraio 2022

Il sinistro filante di Fabian Ruiz, al 94’, dopo il destro di Insigne e il mancino di Pedro. E così Lazio-Napoli 1-2. Ma soprattutto: Napoli e Milan 57, Inter 55 (e un Bologna in meno). Mancano undici turni (dodici ai campioni). Erano in tre, per lo scudetto, e tre restano. Sono un po’ stanche, non sono perfette (ma chi lo è?), Pioli è uscito dall’Europa già a dicembre, Spalletti da giovedì, Inzaghi è appeso ad Anfield. Le milanesi si misureranno in coppa, primo round martedì: e domenica sera, al Maradona, Napoli-Milan. Con Inter-Salernitana già di venerdì.

Il Napoli, invece, è libero. Impegni extra, zero. Veniva dai triboli di Cagliari e dalla lezione del Barça, Spalletti l’ha rianimato. Sarri, zavorrato dal Porto, ci è riuscito a metà. Bel primo tempo, con Milinkovic-Savic in cattedra, come lo sanno essere i «brasiliani» dell’ex Jugoslavia. Occasioni ed emozioni, tocchi e tacchi. Una Lazio al dente e un Napoli strano, molle, impreciso.

Alla ripresa, zitta zitta, la partita si è rovesciata. Il Napoli ha guadagnato terreno, gli avversari l’hanno perso. Spalletti ha tolto Zielinski e inserito Elmas. Una delle chiavi. Da quel momento, più munizioni a Osimhen e meno a Immobile. Doveva ancora segnare su azione, Insigne. Tutti da fuori area, i gol. Il suo, classico, sull’ennesima «distruzione» dal basso. A quel punto, sembrava fatta. Invece no. Il Napoli ha dovuto vincerla due volte. Il mancino di Pedro aveva coronato la reazione della Lazio, più di carattere che di lavagna.

Se la sventola di Pedro era un tuono, la traiettoria di Fabian Ruiz – sin lì, né carne né pesce – è stata un lampo. A uscire, di perfida angolazione. Un morso, non un graffio. Suo, dei suoi. Sarri segnava, alla fine, mentre Spalletti si segnava. La sintesi della notte. Favorita resta l’Inter, ma i pronostici sono tracce, non sentenze. Soprattutto i miei.

Serbo vostro

Roberto Beccantini26 febbraio 2022

Qual è la differenza fra Juventus-Empoli 0-1 ed Empoli-Juventus 2-3? Che discorsi: Dusan Vlahovic. Nel dettaglio: 7’, assist per Zakaria, murato da Vicario; 47’, gol di sinistro, dopo averne mandati due al bar, su recupero di Arthur e tocco di Cuadrado; 65’, contropiede di Morata, controllo di sinistro e lob di destro, al bacio; ultimi minuti, il corpo oltre gli ostacoli, i limiti, gli avversari, tutto , tutti. Magari con un altro allenatore ne segnerebbe quattro a partita, Allegri non può lamentarsi (e il serbo di Allegri? la butto lì…).

Il resto, senza offesa, mancia. Il solito «culetto» basso in fase di non possesso; le solite leggerezze in difesa, Szczesny compreso, punite dalla tigna di Zurkowski e La Mantia; il solito Andreazzoli propositivo e felice nei cambi, anche se l’ultima vittoria risale ormai a dicembre. Veniva da Vila-Real, Madama, e aveva fuori ben oltre mezza squadra (più Zakaria, scomparso in corso d’opera). Non era una trasferta facile. Questa volta, basta così. Tredicesimo risultato utile, otto vittorie e cinque pareggi. Guardare la vetta (a meno sette) lo trovo pretenzioso. Meglio concentrarsi sul quarto posto.

Mi riesce difficile parlare di calcio in questo clima di «Bellum et circenses», con l’Ucraina sotto assedio e l’Europa sotto sopra. Perdonatemi. L’ordalia del Castellani è stata divertente perché solcata da svarioni e ribaltoni, da un Bajrami calante e uno Zurkowski sempre al dente. Gli equilibri li ha spostati Vlahovic. Avrebbe vinto l’Empoli, a maglie invertite. Bella la cartuccia iniziale di Kean, di testa, su cross pettinato di Rabiot, un tipo strano: appena lo condanni, il destino si commuove. Arthur, lui, è un postino. E Locatelli è entrato con nerbo. Rimane il concetto base: chiusa l’era Cristiano (un ventello a stagione), è Vlahovic la trave che tiene su le pagliuzze che lo circondano.